Un'uscita dalla moneta unica determinerebbe non solo un immediato
disallineamento degli spread e una conseguente insostenibilità del
nostro debito pubblico. Scatenerebbe un'inflazione a doppia cifra con
un'esplosione dei costi energetici. In questo contesto la svalutazione
non riuscirebbe a rilanciare le esportazioni e il Pil, visto che le
filiere globali della produzione hanno già ridotto i vantaggi
competitivi dei singoli paesi.
Evidentemente dodici anni di circolazione di una moneta buona non
sono ancora bastati per scacciare la moneta cattiva della polemica
populista. Tant'è vero che ogni giorno dai bastioni anti-euro arriva una
bordata contro la valuta che è diventata unica il 28 febbraio del 2002
per 11 paesi europei per poi, negli anni successivi, entrare nei
portafogli di altri sette. Colpi bassi, sostenuti anche da economisti
isolati, fautori della tesi della "liberazione" dell'economia dalle
catene di una moneta giudicata troppo forte per i paesi della periferia
mediterranea e, quindi, per l'Italia.
Le reazioni solite a questa vulgata, quelle che propongono i fatti
più duri e che sono sostenute non solo dalla maggioranza assoluta di
economisti ma pure dai banchieri centrali, partono dagli effetti di
breve termine e ovviamente insostenibili dell'eventuale break-up:
l'immediato disallineamento degli spread, il default almeno parziale del
nostro debito pubblico (che rifinanziamo sui mercati, in euro, al ritmo
di circa 1 miliardo al giorno), il congelamento dei crediti alle
aziende più indebitate e internazionalizzate, l'esplosione dei costi
energetici e, infine, il ritorno di un'inflazione a doppia cifra.
Uno scenario drammatico al quale i sostenitori dell'uscita dall'euro contrappongono, come giustificazione della loro tesi, il vecchio arnese della svalutazione del tasso di cambio, magico strumento capace, a loro dire, di rilanciare l'export e la crescita del Pil.
Qualche mese fa a mettere in fila almeno quattro fattori che hanno definitivamente affossato l'equazione uscita dall'euro = svalutazione = rilancio di export e Pil è stato il centro studi di Confindustria. Rileggiamoli insieme.
Uno scenario drammatico al quale i sostenitori dell'uscita dall'euro contrappongono, come giustificazione della loro tesi, il vecchio arnese della svalutazione del tasso di cambio, magico strumento capace, a loro dire, di rilanciare l'export e la crescita del Pil.
Qualche mese fa a mettere in fila almeno quattro fattori che hanno definitivamente affossato l'equazione uscita dall'euro = svalutazione = rilancio di export e Pil è stato il centro studi di Confindustria. Rileggiamoli insieme.
Primo: la diffusione delle filiere globali riducono i vantaggi
competitivi di una svalutazione. Non si vive più in un mondo in cui le
imprese delle economie avanzate producono interamente in casa i loro
beni e servizi importando solo materie prime. Ora si produce importando
anche i semi-lavorati che servono a produrre i beni finali da esportare
(in Italia, Spagna e Portogallo l'import di commodity e beni
semi-lavorati è pari al 60% del totale). In questo nuovo contesto di
"supply-chain globale" la svalutazione del cambio renderebbe queste
importazioni assai più costose annullando l'eventuale guadagno di
competitività.
Secondo: i sistemi bancari in crisi renderebbero difficile ottenere
nuovo credito. In pieno credit crunch diventerebbe un'impresa
impossibile per le aziende dei paesi più indebitati chiedere
finanziamenti per sostenere l'aumento di produzione e soddisfare gli
ordini derivanti dalla svalutazione.
Terzo: la più lenta risposta dell'export in un contesto
concorrenziale nel quale i paesi più avanzati possono giocare sulla
qualità dei loro beni e servizi piuttosto che sul prezzo. La spiegazione
è semplice: serve tempo (e nuovi investimenti) per sostituire i
semi-lavorati importati con produzioni proprie e mentre questa
"sostituzione" si determina la concorrenza degli altri paesi avanza con
la qualità (a parità di prezzo) dei loro prodotti.
Quarto: se tutti svalutano nessuno ci guadagna. Il caso citato è quello dell'Argentina del 2002 che ebbe successo abbandonando la parità fissa con il dollaro perchè i paesi vicini che importavano i suoi beni (Brasile e Messico) lasciarono immutati i tassi di cambio. Nel caso dei paesi deboli dell'eurozona la svalutazione sarebbe contemporanea e a guadagnarci di più sarebbero quelli con le maggiori quote di export destinate all'area euro, quindi l'Italia vedrebbe diluiti di molto gli eventuali vantaggi.
Quarto: se tutti svalutano nessuno ci guadagna. Il caso citato è quello dell'Argentina del 2002 che ebbe successo abbandonando la parità fissa con il dollaro perchè i paesi vicini che importavano i suoi beni (Brasile e Messico) lasciarono immutati i tassi di cambio. Nel caso dei paesi deboli dell'eurozona la svalutazione sarebbe contemporanea e a guadagnarci di più sarebbero quelli con le maggiori quote di export destinate all'area euro, quindi l'Italia vedrebbe diluiti di molto gli eventuali vantaggi.